Teatro

Ugo Pagliai e Paola Gassman: "Senza pubblico dal vivo non è Teatro, è un'altra cosa"

Ugo Pagliai e Paola Gassman 
Ugo Pagliai e Paola Gassman  © Eleonora Cavallo

Ugo Pagliai e Paola Gassman tornano a calcare i palchi, dopo mesi e mesi rompono il ghiaccio dell’astinenza da prosa del pubblico.

Ugo Pagliai e Paola Gassman tornano a calcare i palchi e lo fanno al Teatro Nazionale di Genova con la loro versione tutta speciale di Romeo e Giulietta (INFO e DATE), e dopo mesi e mesi rompono il ghiaccio dell’astinenza da prosa del pubblico.
Ma fanno anche il punto sul mestiere dell'attore e sul teatro dopo la bufera-Covid. Li abbiamo incontrati e intervistati.
 

Bisogna dire che il vostro è uno Shakespeare davvero fuori dagli schemi
Si, è tutto cambiato. Non si può pensare a questo spettacolo come a una classica rappresentazione della tragedia shakespeariana e neanche come una sua attualizzazione. In realtà si tratta di un viaggio, un gioco di rimando, una spola tra il passato e il presente, dove le due dimensioni temporali e le vicende personali si confondono e si mischiano. Un viaggio tra la coppia letteraria di Giulietta e Romeo e quella reale e professionale composta da mia moglie Paola e me, che stiamo insieme da 53 anni.


Non a caso al titolo è stata aggiunta la frase Una canzone d’amore.  Gli autori e attori di Babilonia Teatri hanno tolto tutto: la guerra tra i Montecchi e i Capuleti, Verona, gli altri personaggi. Resta il filo conduttore dell’amore, della vita e della morte.

Il testo di Shakespeare diventa parte stessa delle vostre vite
In realtà non è strano come sembra. Io ho recitato centinaia di ruoli, centinaia di parti, e ogni volta l’autore e il personaggio si mischiano un po’. Forse stavolta si mischiano un po’ di più.

Non vi siete meravigliati quando vi hanno proposto di interpretare la coppia di amanti giovani per eccellenza?
Si, ovviamente. Babilonia Teatri, la compagnia fondata nel 2005 da Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, ha un suo stile, un modo di raccontare tutto suo, con loro abbiamo sempre lavorato bene. Per questo quando sono venuti a Roma a proporci una versione un po’ diversa di Romeo e Giulietta, io e Paola non ci siamo meravigliati più di tanto. Però abbiamo pensato a qualche ruolo di contorno,  la caratterizzazione di qualche personaggio anziano. 

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Infatti gli abbiamo detto che accettavamo, e abbiamo chiesto chi faceva Giulietta e Romeo. Loro hanno sorriso e ci hanno detto: Non avete capito. Siete VOI Giulietta e Romeo. Siamo rimasti un po’ spiazzati, ma non ci siamo tirati indietro. Quelli di Babilonia Teatro ci hanno tranquillizzato: sarebbe stato un lavoro di grande poesia e tranquillità, basato sulla nostra vita, sul rapporto tra noi.

I brani scelti dall’originale sono quelli tradotti da Salvatore Quasimodo
Un grande poeta, appunto. Sul palcoscenico ci siamo io e Paola, che parliamo di tutto. Ci sono le nostre vite, c’è il teatro, l’arte, il rapporto con il pubblico.

In platea ci sono Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, che fingono di essere spettatori e vi fanno delle domande.
Sì, e sul palco con noi c’è un lanciatore di coltelli che ci prende di mira. Una simbologia che si capisce durante lo spettacolo. Siamo un po’ preoccupati, ma fa parte del mettersi in gioco. Questo Romeo e Giulietta è una bella esperienza: il rapporto con Babilonia Teatri è vero ed autentico e quindi stiamo al gioco: sono riusciti a farci anche cantare. E’ bello scherzare con questi materiali.


Non le dispiace mettersi a nudo così, sul palco?
Un po’ si. Nella coppia sono io quello più riservato, quello più restio a raccontare il privato. Paola invece è più disponibile a raccontare la famiglia. Penso che nella mia vita ho interpretato decine di personaggi: e dato che ogni attore mette un po’ di sé stesso nelle persone che interpreta, io ho già raccontato la mia vita tramite loro.
Ho fatto personaggi pieni di gioia, di tristezza, personaggi tragici, personaggi che odiavano, personaggi che amavano. In scena apro gli sportellini della mia personalità e tiro fuori quello che serve per fare arrivare allo spettatore una verità e non una finzione. Ovviamente mi aiuta il fatto che sono tutti ruoli scritti da grandissimi autori, che avevano qualcosa da dire.

Nel 1963 lei era al Teatro Stabile di Genova: quello di questi giorni per lei è un ritorno.
Torno sempre volentieri a Genova, è una città che amo, ma questa volta per me è anche una ferita che si riapre. Recentemente, infatti, è morto il regista Marco Sciaccaluga (Qui il nostro ricordo, ndr) ed è stato un lutto che mi ha molto colpito. Con lui c’era un rapporto bellissimo, mi manca. Ogni volta che venivo a Genova, anche se non dovevamo lavorare insieme, ci vedevamo e parlavamo a lungo. 
Genova mi ha visto nascere come attore. Quando il teatro Ivo Chiesa non c’era ancora, misi in scena al Duse una versione molto particolare di Urfaust. Nel 1964 ho fatto Pirandello con Luigi Vannucchi, Alberto Lionello e Turi Ferro: tutti amici che purtroppo non ci sono più ma che stanno sempre in scena. Almeno per me.


Ugo Pagliai oltre che teatro ha fatto moltissima televisione. Ha segnato l’immaginario (e le paure) di un’intera generazione di giovani telespettatori nel 1971, con “Il segno del comando”, ma ha partecipato praticamente a tutta la televisione di qualità passata sul piccolo schermo in quegli anni: da Maigret a Laura Storm, dall’Amaro caso della baronessa di Carini a Nero Wolfe, da Cuore di Comencini al Tenente Sheridan. Un monumento della recitazione.

Come sta il teatro italiano prima e dopo il Covid?
Com’era prima lo conosciamo, e sappiamo che aveva già dei colori diversi rispetto a un tempo. Oggi non saprei dire con precisione. Ognuno di noi attori è stato fermo a lungo, si è arrugginito. Ora si tratta di rimettersi in piedi e ricominciare a camminare. Molti hanno approfittato di questo tempo di sospensione per studiare, si sono esercitati, hanno fatto lo streaming. Ma c’è poco da dire: senza il pubblico dal vivo non c’è teatro, è tutta un’altra cosa.

Cosa intende con “colori diversi”?
C’è una certa tendenza a una sovrappopolazione di personaggi, una superproduzione di storie che magari non hanno lo spessore di una volta. Si studia meno il personaggio, per cercare la novità a tutti i costi e in tempi brevi. Vedo più superficialità, anche se non voglio fare di ogni erba un fascio: anche oggi si producono spettacoli di alto livello. E’ però vero che spesso mi è capitato di assistere a spettacoli quasi incomprensibili.


Insomma, non è una cosa semplice. Non si può negare che le problematiche siano diverse rispetto a quelle di anni fa, e che quindi serve un nuovo lavoro di ricerca. Il Covid ha dato una spinta in questa direzione. Ha messo da parte un certo modo di fare spettacolo, di scegliere i testi. Ci sono nuove ricerche sui romanzi, soprattutto quelli contemporanei. La sfida sul palcoscenico è quella di soddisfare le richieste create dalla modernità e dalle nuove problematiche senza perdere la qualità e la profondità di una volta.

Quindi è ottimista o pessimista sul futuro del teatro?
Sono ottimista. Guai se non fossi ottimista. Non si può vivere senza il teatro. Da quando è nato, l’uomo si è sempre raccontato, in vari modi. Il teatro racconta la vita. Ci aiuta a capire e sopportare le difficoltà dell’esistenza, mettendole in scena. I personaggi non sono finzione, sono esistenze rese paradigmatiche, in cui tutti si possono riconoscere. E come me la pensano tutti gli attori. Finché c’è l’uomo, ci sarà il teatro.